DI SPECCHI E DI ALTALENE NELLA CITTÀ IDEALE

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De Bello Civili ph Davide Scognamiglio

di Adriana Follieri, regista e drammaturga / Manovalanza

Occorre che ci si conceda anche il solo onirico pensiero dell’alterità, pensiero di un luogo altro, astratto e nuovamente concreto da attraversare e in cui riversare le pretese di conforto estatico, dinamico, essenziale. Occorre pensare alla città ideale come forma fisica delle essenze incompiute, come somma dell’individuale inconsistenza, come risultante geografica di tutte le strade sbagliate e di questo umano e incessante perdersi. Edificare sul già edificato. Costruire in virtù della inevitata demolizione. Occorre avere buona memoria, tradurre l’onirico in reale, dunque erigere di questo sogno ogni dettaglio in veglia, per dare luogo alle forze inespresse e farne urbano ricamo.

Da dove cominciare? A chi affidare il cantiere? Come progettare lavori onesti, resistenti alle calamità, alle battaglie tra gli uomini e le cose? Come disarmarci, tutti, per combattere il corpo a corpo della nuova polis?

È forse da questo disarmo che bisogna partire, dalla nudità delle idee e delle relazioni, dal riconoscimento delle incolmabili distanze, dal lungo silenzio e dalle parole che sopravviveranno.
È possibile che l’origine del processo di trasformazione sia in questo palese senso di alienità: un non sentirsi parte, pure essendo appieno dentro il concreto complicato delle cose.
Un’alienità sospesa al di là delle abitudini comuni: vocabolario, orario, calendario, erario; sussidiario essere au-delà del quotidiano vivere cittadino.
È possibile che qui si origini una distanza, nel triangolo/recinto delle attitudini e delle pretese: città/casa/lavoro in una logica dissimile dal sentire diffuso; città/casa/lavoro in una logica assolutamente identica e schiacciante.
Dov’è il cittadino? Dove l’artista? Dove il fanciullo, il politico, l’adulto esemplare?
Cosa è dunque questo nostro sembrar essere, questo esule e straniero a cui la gente comune, l’unica che si salva da sé, nel raro atto di incontro chiede: “insegnami qualcosa” o più frequentemente dice: “non ho capito” ? Dove si annida questa distanza incolmabile tra gli uomini? Quanto grande si è fatta la paura che spinge al controllo faticosissimo e costante? Quanto reclusi e inospitali siamo diventati a noi stessi?

Qui l’arte non c’entra. Qui si parla della civitas – dell’uno dentro il tutto – del piccolo segno nella grande comunità distratta. Anche se questo distrarsi tutto politico si è fatto spazio imputridendo pure l’arte, e  il  teatro, e le persone – nelle nostre città – per contagio o per natura ovunque tutt’intorno, senza averlo deciso, strutturato, scelto. Così, inavvertitamente, ché il desiderio si annida altrove. Desiderio che insegue siderali vie perdute e dimenticate da notti lontanissime.
Gli esploratori solitari si sono perduti nel nulla delle cucine e delle camere da letto, dimentichi del loro stesso oro/logico sentire – dis/tratti – con/tratti – as/tratti e in/comunicanti – scomunicabili per non aver tenuto fede alle promesse di nascita e di resurrezione.

Questo è accaduto e la paura crea un’eco ininterrotta di paura, il confine edifica confine, le mura si ergono sempre più alte. La città reale somiglia sempre meno a quella ideale.
Verrebbe voglia di proteggersi ancora, invisibilmente lasciarsi cadere e scomparire, sottrarre al vuoto quello che resta, cedere alla distanza, cedere alla diffidenza, trincerarsi.

E invece accade adesso che ci armiamo di coraggio e di pazienza – coraggio/pazienza riscritta come un’unica parola – come fusione di incompatibili tempi e modi dello stare al mondo, come unica possibile e necessaria combinazione per tollerare la veglia funebre del presente ed affacciarsi al fuori/domani/giorno con irresponsabile, stupido, stupìto, miracoloso sguardo di rivoluzione.
Ché il desiderio si annida altrove. Altrove la città ideale. Altrove la battaglia.

Dico a me stessa: non mostrerò la battaglia, non fingerò che non esista, solo mi farò trovare lì.
In risposta alla domanda un sì, siamo disposti.
Auspico così un esercizio di compresenza nell’arsenale di forze e segni, capace di affrontare il cambiamento senza cronaca né voyeurismo, mantenendo segreto e privato il dolore con le sue forme, e rilasciando aperto, pubblico e accogliente allo sguardo solo il luogo prima e dopo la battaglia, solo il discreto e necessario delle cose. Desidero una trasformazione trasparente. Nessuna pornografia politica dentro questo restauro necessario di uomini e superfici.

Accolgo l’onirico invito ad abitare adesso la propria città ideale, diventarne sottile esempio ritmico ed essenziale: farsi comunità, essere uno del tutto, silenziosa cellula in ascolto, coraggiosa cellula in guida del mondo, capobranco e cucciolo in coda, principio e fine.
Questa è la città che adesso vedo in sogno, doppia, nelle sue possibilità animali, nelle sue meraviglie civili: città inverticale, città circolare, città di cooperazione di uomini/formiche, instancabili e gioiosi, sorpresi nel godimento del lavoro d’insieme, con i vivi, con i morti maestri che suggeriscono una via, una piazza, una casa e uno sguardo teso verso il mare e le terre al di là da esso. Città in cui imparo ancora un poco a chiedere aiuto, a riconoscere nell’altro l’unicità che mi manca, ad esporre la mia per chi vorrà prenderne un pezzo. In sogno corro il rischio e imparo ad opporre ad ogni vizio capitale una virtù, teologale, cardinale.
Insegno al corpo adulto il gioco dell’altalena: sperimentare l’alto e il basso, per mezzo della spinta di un altro.

La città ideale dovrebbe avere così il coraggio di desiderarsi.
Non essere soli. Non guardare dentro lo specchio. Non ritrovarsi immobili.
Ecco il desiderio: i numeri, le persone che si moltiplicano, la sterilità che si affaccia alla luce, che si traduce in contagio felice e smette di essere tanto severa a se stessa. Il prolificare di noi stessi negli altri. Gli sguardi, le orecchie ritte alla possibile scoperta, la disponibilità a questa contaminazione. Ecco l’ingenuo antico desiderio. Ecco il coro ritornato e nuovo. Ecco l’Agorà e la strada e la casa, ecco l’io capace di guardare al Dio.
Ecco il desiderio. Città ideale che non ripiega su se stessa, che riconosce lo specchio rotto che siamo, e che pure non smette di riflettere la luce…

Trasformare.
Tradurre.
Trasferire.
Riflettere.
Restituire.
Giocare alle radici quadrate delle parole e delle vite. Elevarci ad una potenza collettiva.
Comporre partiture nuove/antiche/necessarie. Scomporle. Offrirle senza tema in pasto ai lupi che siamo stati. Invertire il solo in un consólo: assieme di conforto, sasso nello stagno, onda su onda su onda, concerto, coro ideale dentro la città reale.

[Estratto dal Ro.Ro.Ro 2016]

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